Ho sempre pensato e sostenuto che le parole siano importanti, contano, a volte potenti, esprimono e ampliano il nostro pensiero, ci permettono di sviluppare ciò che per noi ha valore e, soprattutto, possono dar forma a concetti anche in prospettiva diversa.
Negli anni mi sono occupata molto del linguaggio di genere, ho studiato e sviluppato progetti sulle differenze di genere, sulla Parità e sulle Pari Opportunità; a dire il vero, per alcuni anni è stato l’ambito prevalente del mio lavoro.
L’esperienza è maturata all’interno della Rete Cora (Centri Orientamento Retravailler Associati) un’associazione nazionale che traeva origine e ispirazione da un’altra associazione francese i Centri Retravailler, riuniti poi in una Rete Europea, EWA. CORA è stata in Italia una delle esperienze più significative, tra il 1990 e il 2010, per l’accompagnamento e l’empowerment delle donne al lavoro, per lo sviluppo delle Pari Opportunità nel lavoro, ma è stata anche per me, personalmente, una delle esperienze più significative della mia esperienza professionale.
Per 10 anni ho fatto parte del Comitato Nazionale di Parità della Legge 125, lavorando con altre donne di associazioni e organizzazioni nel campo delle Pari Opportunità, portando avanti numerose iniziative in questa direzione, valutando centinaia di progetti di Azione Positiva, lavorando e valorizzando il linguaggio di genere, il pensiero della differenza.
Ad un certo punto questa esperienza si è interrotta nella sua complessità, per vicende varie, ho comunque continuato ad occuparmi di questi temi con l’organizzazione con la quale collaboro attualmente.
Io parlo un linguaggio di genere senza alcuna difficoltà, per me è normalissimo usare declinazioni al femminile o al maschile a seconda dei contesti, un esempio? Se in un’aula di formazione ho prevalentemente partecipanti donne mi rivolgo al gruppo al femminile anche se sono presenti uomini. E viceversa ovviamente.
Proprio quando l’impegno a livello nazionale con la Rete Cora è venuto meno, è cominciato il mio cammino professionale nel mondo del vino: in questo ambito l’incrocio fortunato con l’Associazione Fisar e il progetto Fisar in Rosa hanno portato a mettere assieme i due aspetti. Fisar in Rosa è un progetto di Fisar Nazionale per la valorizzazione della donna nel mondo del vino, soprattutto in termini di rappresentanza e visibilità, non solo delle sommelier, ma anche di produttrici, enologhe, giornaliste, ristoratrici.
Perché questa lunga premessa? Per motivare l’interesse e la meraviglia del progetto di Rebecca Valent, giovane enologA, che ha deciso, su questi temi, di dedicare un vino, il suo vino. Quando ho visto la presentazione di questa iniziativa ho avuto un tuffo al cuore, una soddisfazione come non avevo da tempo su questi temi: la parola incisa, evidenziata, su un’etichetta di un vino, mettendoci faccia, cuore e significato.

Conoscevo già Rebecca e la sua realtà, Borgo Stajnbech, nel cuore della DOCG Lison, da qualche anno presente in Guida Slow Wine, ma ho voluto incontrarla per farmi raccontare il progetto di EnologA.
Rebecca ha 27 anni, quarta generazione di produttori, genitori che molto intelligentemente hanno cominciato a darle uno spazio importante in cantina da quando è vi entrata a pieno titolo come enologa. Adriana Marinato, la mamma, è donna tosta e ha combattuto anche lei le sue battaglie, quando nel mondo del vino le donne erano pochissime e decisamente poco considerate “La figura di mia mamma è stata fondamentale nella mia formazione” mi dirà poi Rebecca.
“Volevo fare un vino per imparare a prendere delle scelte indipendentemente, personali, dove dover decidere solo io, un vino che fosse un’affermazione personale, non per mettermi in mostra, ma per validare le mie capacità, così nel 2021 è nato Enologa” racconta Rebecca “l’ispirazione l’ho presa in parte anche da colleghe che si mettevano in gioco con un loro vino”
In realtà questo vino è un progetto complesso, che Rebecca ha sviluppato attraverso una riflessione articolata. Prima di tutto la scelta della varietà che doveva rappresentare il territorio, ma anche la storia dell’azienda: quindi l’autoctono per antonomasia, le uve Tocai per il 60% e poi un 40% di chardonnay, uve da sempre coltivate da Borgo Stajnbech su terreni argillosi, ricchi di caranto, vigneti ormai adulti.

Poi la scelta dello stile del vino “che interpreto io perché mi piace così, quindi un 20% affina in barrique, il resto in acciaio; il legno a dare complessità per un vino diverso, impeccabile, che non avesse sbavature, lo volevo così, forse un po’ tecnico ma volevo che rappresentasse le mie esperienze fino ad oggi, compresa quella in California dove ho capito soprattutto come non dovevo fare” prosegue Rebecca un po’ sorridendo.
“Ma soprattutto volevo un vino che doveva comunicare qualcosa, una bottiglia che si facesse portavoce di un messaggio: ho sempre pensato e sperimentato il fatto che c’è ancora strada da fare per le donne nel mondo del vino, e non solo in questo settore, ovviamente. Ricordo ancora la mia prima volta al Vinitaly, dovevo ancora iscrivermi a Enologia all’Università, ma la scelta era quella, ero con mio papà e altre persone, tutti uomini, in visita da un produttore per degli assaggi; a me, senza neanche chiedermelo, hanno versato un passito, un vino dolce, ho avuto una strana sensazione, qualcosa non andava, da quel momento, che non ho dimenticato, ho cominciato questa riflessione. Così nasce Enologa, volevo un nome che non fosse autoreferenziale, ma che esprimesse un concetto”

Ultimo passaggio quello dell’etichetta, il progetto del packaging, dell’immagine: l’ho studiato assieme ad un mio amico, grafico, che ha condiviso con sensibilità questo progetto. Un’immagine pulita, essenziale, ma ricca di significato: sull’etichetta si legge “un passo verso l’equità, un passo in meno da fare” bottiglie numerate anche perché, ad oggi, sono pochissime, circa 2000.
“Ancora oggi rimane difficile farsi chiamare enologa, anche fra colleghe ogni tanto qualcuna mi chiede “ma sei enologo?”, le parole hanno tanto valore, pesano e così io le ho volute scrivere, quasi incidere sull’etichetta” come non capirla? Sviluppiamo via via un bel dialogo fra di noi, io con i miei aneddoti di una vita, lei pescando in tempi più recenti, ma molto simili in sostanza. Anche la fascetta riprende il concetto della parità, uomini e donne, diversità, valore.

Ma assaggiamolo questo “Enologa” con la “a” bella in evidenza, dopo aver cancellato con un segno grafico la “o”: è vino di struttura piacevole, profumi di glicine, biancospino, poi arrivano note di ananas, una leggera vaniglia voluta, il sorso è avvolgente ma fresco, conduce ad un finale di ricca sapidità e riemerge la sensazione di mandorla del Tocai. Roberto Cipresso, non certo ultimo fra i wine makers, lo ha definito “un vino inattaccabile”, scusate se è poco.
Con l’occasione assaggiamo un altro vino novità, concettuale e coraggioso: “Imagine” è un Metodo Classico – nato tanti anni fa, nel 2011, con la volontà di farlo, un obiettivo, una pietra miliare dell’azienda, un traguardo avere anche uno spumante di qualità. Così è nato questo figlio dell’immaginazione nel tempo, chardonnay al 60%, e pinot nero, che affina per 36 mesi. Sorseggiamo il millesimo 2018, con un 15% di annata 2011 aggiunta, uve vendemmiate molto presto e vinificate in bianco, non dosato. E’ un vino dove vince l’armonia, se ne fanno poche bottiglie 3300, una bolla fine, cremoso, freschezza di fiori d’arancio come primo impatto, la nota del rabbocco dello chardonnay che, in successione, impreziosisce la struttura.

Sorprendente come inizio, immaginiamo il futuro ancora migliore, decisamente possibile con questa EnologA, Rebecca Valent.